Il governo delle migrazioni
Contesto
Pochi temi come quello dell’immigrazione segnalano la difficoltà dell’Unione Europea a superare la giustapposizione degli interessi nazionali. Da che il tema migratorio è diventato il principale propellente elettorale delle forze sovraniste, nella strumentale esasperazione delle paure che derivano da una pessima gestione del fenomeno, ogni Paese ha preso a giocare per sé, sacrificando tanto i diritti dei migranti che i principi di solidarietà europea.
Il Trattato di Dublino è l’emblema di questa impostazione. E il nuovo Patto sulla migrazione e asilo, approvato allo scadere della legislatura e nell’approssimarsi delle elezioni, senza intaccare davvero lo spirito di quel Trattato, segnala piuttosto il cedimento della maggioranza delle forze democratiche e riformiste alla narrazione emergenziale sostenuta dalle destre. Nessuna promozione di canali di ingresso regolare, nessun passo avanti sui rimpatri: solo procedure più spicce e meno rispettose dei diritti umani, con obiettivo di mostrarsi più “rigorosi” alle rispettive opinioni pubbliche.
E sì che l’Europa di migranti, possibilmente regolari, avrebbe grande bisogno. La crisi demografica, seppure con diversi gradi di intensità, investe tutti i Paesi, e sin d’ora si avvertono i segnali di una contrazione della forza lavoro destinata a farsi sempre più pronunciata. Le proiezioni dicono che, a tassi di natalità e flussi migratori costanti, l’Europa è destinata a vedere la popolazione attiva contrarsi di 35 milioni di unità entro il 2050, e di 55 entro la fine del secolo.
Diversi strumenti possono essere attivati per contrastare questo fenomeno, a partire da politiche pro-natalità che in alcuni Paesi (in Francia, Germania e nei Paesi scandinavi) hanno dato buoni risultati, all’innalzamento dei tassi di attività di donne e giovani là dove – in Italia, più che in ogni altro Paese – risultano lontani dalle medie europee. Difficile però non vedere nella contrazione dei tassi di natalità alcuni elementi di natura culturale, destinati a permanere e fors’anche ad accentuarsi. E quand’anche si verificasse un improvviso risveglio demografico, questo non avrebbe effetti sul mondo del lavoro prima di 20 o 25 anni.
Nel frattempo, in aggiunta, tutti i Paesi europei dovranno fare i conti con il progressivo allungamento delle aspettative di vita dei loro cittadini, frutto del progresso medico-scientifico e di nuovi e diversi stili di vita. Fenomeno certamente positivo, ma altrettanto certamente non privo di conseguenze di difficile gestione, a partire dal forte incremento della spesa previdenziale e sanitaria (al netto della mitigazione che potrà derivare da un maggiore investimento in prevenzione, per permettere a quante più persone un “invecchiamento in salute”).
La combinazione dei due fenomeni – contrazione delle nascite e della forza lavoro da un lato, forte incremento della spesa per le pensioni e per la salute – rischia di compromettere la sostenibilità dei sistemi di protezione sociale realizzati in Europa a partire dal Dopoguerra. È il welfare europeo che rischia di saltare, sotto la spinta convergente e potenzialmente esplosiva di queste due dinamiche.
Ecco perché avrebbe senso guardare all’immigrazione con occhi diversi. Un’immigrazione governata, legale, gestita insieme ai Paesi di origine delle persone che vogliono trasferirsi in Europa, pianificata e indirizzata a incontrare i fabbisogni dei mercati del lavoro europei, rappresenta una risorsa irrinunciabile, oltre che la principale arma per contrastare l’immigrazione irregolare e combattere le mafie che prosperano sul traffico di esseri umani.
Il nostro compito dev’essere quello di affermare questa nuova e diversa lettura dei fenomeni migratori, l’unica in grado di riconciliarci col bisogno di sicurezza che emerge dalle opinioni pubbliche dei diversi Paesi membri, l’unica in grado di “disarmare” le forze sovraniste che da anni prosperano nell’accreditare l’immigrazione come una minaccia. Si tratta di una grande e decisiva scommessa, che non può essere lasciata ai singoli Stati, ma deve diventare oggetto di una nuova strategia comunitaria, volta innanzitutto a fare salvi i sistemi di protezione sociale che rischiano di essere travolti dalla transizione demografica in corso.
Su cosa agire
Revisione del Trattato di Dublino e del Patto Migrazione e Asilo
Il Trattato di Dublino è l’emblema della “non solidarietà” europea, la cui sostanza è solo marginalmente mitigata dagli impegni di condivisione introdotti dal nuovo Patto Migrazione e Asilo. Superare la previsione che accolla tutti gli oneri ai Paesi di primo ingresso – poiché è in Europa che approda chiunque raggiunga le spiagge di Lampedusa o di Lesbo – rimane un obiettivo per la prossima legislatura.
Quanto al Patto recentemente approvato, oltre a contenere misure potenzialmente lesive dei diritti umani – dalla detenzione per lo “screening” in frontiera alla “procedura di frontiera” ammessa in molti casi per l’accertamento dei requisiti di asilo – ha altissime probabilità di non funzionare. Non prevedendo infatti alcun passo avanti dal punto di vista dei rimpatri, è prevedibile che porti rapidamente ad un intasamento degli “hot spot”. La sua revisione deve quindi rappresentare un ulteriore obiettivo nella prossima legislatura europea.
Apertura di robusti canali di immigrazione legale
Partendo dal presupposto che “bloccare l’immigrazione” non sia tra le opzioni percorribili, la più efficace alternativa agli attuali flussi migratori irregolari è rappresentata dall’attivazione di flussi regolari, pianificati e gestiti in collaborazione con i Paesi di origine nell’ambito di accordi di cooperazione e sviluppo, da collocare in parallelo a corridoi umanitari utili a mettere in salvo i profughi di guerre e persecuzioni. Sarebbe illusorio immaginare che queste opzioni possano azzerare i movimenti spontanei, ma certo rappresenterebbero il modo più efficace per contrastare il traffico di esseri umani oggi in mano dalla malavita organizzata.
È infatti l’assenza di canali regolari a spingere oggi nelle mani dei trafficanti tanto i profughi che scappano da situazioni di guerra o persecuzione, quanto i cosiddetti “migranti economici”, alla ricerca di migliori condizioni di vita (nel mezzo, tra loro, chi è costretto a lasciare la propria terra a causa del cambiamento climatico, chi fugge da carestie e siccità, chi cerca scappa da regimi liberticidi, e mille altre situazioni di fragilità). Nessuno si mette volentieri nelle mani di aguzzini e torturatori.
È auspicabile che l’attivazione di canali di ingresso legale:
- sia costruita in relazione alle necessità nei mercati del lavoro locali;
- sia accompagnata da progetti formativi nei Paesi di origine, utili a fornire una base di conoscenza linguistica e professionale a chi desidera trasferirsi nei diversi Paesi europei;
- sia affidata all’intermediazione di soggetti accreditati come le agenzie per il lavoro e le rappresentanze d’impresa, operanti anche nei Paesi d’origine dei migranti, piuttosto che direttamente all’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
- sia accompagnata da nuovi strumenti normativi, come il “permesso temporaneo per ricerca di lavoro”, assistito da opportune garanzie;
- sia accompagnata da efficaci politiche di integrazione.
È essenziale che la cornice politica e normativa entro cui collocare le iniziative nazionali su questa materia sia definita in sede comunitaria, e si accompagni a politiche di cooperazione e sviluppo verso i Paesi di origine dei flussi migratori.
Europa chiama Africa
A tale proposito, è importante che l’UE comprenda le potenzialità del continente africano, in una prospettiva di mutuo beneficio, con l’obiettivo di contribuire al suo sviluppo e nell’interesse delle imprese europee. Il Piano Mattei avviato dal governo italiano può rappresentare una proiezione interessante solo se sottratto ad una visione di breve respiro – strumento di un improbabile tentativo di “fermare” i flussi migratori – e inserito nella più ampia e credibile prospettiva del Global Gateway dell’Unione Europea.
Politiche di integrazione
Integrare significa innanzitutto formare, attraverso gli strumenti essenziali della cittadinanza, come la conoscenza della lingua italiana e delle principali regole che normano la convivenza civile nel nostro Paese, e una buona istruzione. Una formazione efficace è cruciale per consentire l’effettiva partecipazione al mercato del lavoro e catturare gli aspetti positivi del fenomeno migratorio, come la crescita economica e occupazionale, limitando quelli negativi, come le tensioni sociali, la segregazione, la discriminazione, o il rischio di scivolamento della popolazione straniera verso l’illegalità.
Questo vale sia per i nuovi immigrati – per quelli cui auspicabilmente sarà dato modo di arrivare in Europa “in aereo”, e non con i barconi dei trafficanti – sia per chi è già qui. Immaginare di rimpatriare gli oltre 500 mila migranti che vivono in Italia in condizione di irregolarità – senza permesso di soggiorno e senza diritti, consegnati alla marginalità, allo sfruttamento e all’illegalità – è assolutamente illusorio; e lo stesso vale per gli altri Paesi europei che ospitano migranti irregolari. Anche in questo caso l’unica risposta ragionevole è l’attivazione di misure di integrazione che includano diritti e doveri.
Così, infine, per chi è nato qui da genitori stranieri, e si vede incomprensibilmente negato il diritto di cittadinanza. Nella prospettiva italiana, è tempo di riprendere la battaglia per lo Ius Soli, o quantomeno per lo Ius Culturae, con l’obiettivo di dare applicazione a valori di uguaglianza fondativi della nostra Costituzione e di rafforzare la coesione sociale, ma più in generale avrebbe anche qui senso una cittadinanza europea, con regole e procedure condivise da tutti i Paesi. Anche per questo ci sarà motivo di impegnarsi.